Simone Gianolio

Negli ultimi anni, coloro che meglio di altri hanno saputo interpretare le spinte esegetiche alla ricerca del Gesù storico hanno portato avanti un lavoro largamente produttivo, che nelle sue linee principali ha grandemente avvicinato l’uomo moderno al Gesù della storia. Tuttavia, in questo contesto è mancato fino ad oggi un serio dibattito sulla datazione delle fonti utilizzate: non si può fare storia senza fonti, e non si possono analizzare le fonti senza calarle nel loro contesto geografico e cronologico di appartenenza.

Inizialmente, i Vangeli erano collocati in uno stadio piuttosto avanzato del II secolo d.C.: in questo modo, era facile giustificare l’impossibilità di raggiungere l’originario messaggio di Gesù. Quando nel 1935 Roberts pubblicò un piccolo frammento di papiro relativo al Vangelo secondo Giovanni, proponendo per lo stesso una datazione non più tarda dell’inizio del II secolo, il mondo accademico fu scosso ed in un certo senso sconvolto da una scoperta che rivoluzionava l’allora dominante concezione sui Vangeli.

Da quella scoperta si giunse infine, nel corso degli anni, ad un compromesso: i Vangeli venivano pienamente riportati all’interno dell’ultima parte del I secolo, ma in una fase cronologica, detta della “terza generazione”, che forniva comunque un ampio margine di sicurezza per consentire le più varie speculazioni sul senso ultimo di tali testi.

Solo in questo modo era infatti possibile lanciarsi nelle più disparate interpretazioni teologiche di singoli passi del Vangelo secondo Giovanni, e soltanto in questo modo si spiega l’attacco senza peli sulla lingua che la maggioranza del consesso accademico ha lanciato a quella minoranza di studiosi (definiti “outsiders”) che nel tentativo di ricostruire la più verosimile sequenza degli avvenimenti riportava la scrittura dei Vangeli in piena prima età apostolica, arrivando addirittura a pochi anni dopo la morte di Gesù.