Δημοκρατία

Oltre Cambridge Analytica, l’uso politico dei big data (Mirko Annunziata)

Facebook, colosso dell’informatica proprietario dell’omonimo social network nonché di Instagram e WhatsApp, è da diversi giorni al centro di furiose polemiche per esser prima non riuscito a impedire, e poi aver taciuto l’uso illegale dei dati in suo possesso a fini di propaganda politica, con conseguenze che potrebbero addirittura aver inciso sugli esiti delle ultime elezioni presidenziali americane e del referendum per l’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea.

Tutto nasce da Cambridge Analytica, in apparenza una delle tante società che si occupano di analizzare dati raccolti attraverso il monitoraggio dei “comportamenti” (like, commenti, condivisioni ecc.) da parte degli utenti sui vari social network. Il compito di queste aziende è fornire, grazie all’analisi dei dati, profili di mercato sempre più raffinati per campagne di comunicazione e pubblicitarie mirate. Un esempio di quanto sia ormai semplice legare una nostra azione online a un’azione pubblicitaria è ciò che accade quando mettendo un like alla foto di una borsa si vede poco dopo comparire sul proprio Facebook un annuncio sponsorizzato da parte di un’azienda che produce borse. A garanzia della privacy dell’utente rispetto a queste elaborazioni sta il fatto che secondo i termini di servizio chi riceve le informazioni garantisce che i dati vengano raccolti in forma anonima e aggregata. Tuttavia, l’evolversi delle capacità di analisi su una mole di dati sempre più consistente consente a società come Cambridge Analytica di risalire al singolo profilo, ossia alla singola persona, sulla base dell’andamento dei suoi comportamenti, con conseguenze che possono andar ben oltre l’efficacia pubblicitaria.

Nel 2015 lo sviluppatore Aleksandr Kogan diffonde su Facebook il test This is your digital life, sotto forma di una delle tante app interne al social che richiedono all’utente il consenso a rendere accessibili i propri dati. Di fatto This is your digital life sembra esser stata concepita come test psiscometrico a tutti gli effetti, volto a tracciare profili molto dettagliati. Qui entra in gioco Cambridge Analytica, la quale decide di acquistare i dati raccolti attraverso questa app, operazione illegale e che costituisce il perno delle accuse rivolte a Facebook, responsabile per non aver adeguatamente monitorato il flusso dei dati presenti al suo interno.

La decisione da parte di Cambridge Analytica di acquisire quei dati pare sia nata nientemeno che da Steve Bannon, mente strategica dietro la campagna elettorale di Donald Trump e considerato tra i principali fautori del clamoroso successo del Tycoon alle elezioni presidenziali americane del 2016. I dati acquisiti da Cambridge Analytica pare siano stati usati da Bannon e dal suo entourage per veicolare fake news e spingere su determinati contenuti sulla base delle elaborazioni di profili effettuate. L’influenza svolta dall’accesso a certi tipi di contenuti sui social sembra aver favorito la vittoria di Donald Trump alle elezioni. Uno scenario che potrebbe persino collegarsi con il Russia Gate, ossia con le operazioni di propaganda online e cyber-spionaggio che il governo di Putin pare abbia messo in atto per favorire la vittoria di Trump.

L’appoggio di Cambridge Analytica a campagne politiche legate alle destre sembra abbia riguardato anche la Brexit, a sostegno delle forze che volevano l’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea. Persino l’Italia appare coinvolta, con i dati di Cambridge Analytica utilizzati per favorire il ritorno in auge di un partito italiano “non meglio specificato”.

A rilevare tutti questi retroscena è stato un ex ricercatore di Cambridge Analytica, Christopher Wylie, la cui testimonianza è stata utilizzata in diverse inchieste. Secondo Wylie, Facebook era consapevole del commercio, anche illecito, dei dati raccolti all’interno della piattaforma, ma ha preferito tacere per evitare ulteriori complicazioni e danni d’immagine nei confronti di utenti e investitori.

E oggi, infatti, dopo la diffusione della notizia, gli investitori minacciano di abbandonare in massa Facebook, causando forti perdite in borsa all’azienda di Zuckerberg, il quale, attraverso un post, ha chiesto scusa per gli errori commessi nel caso Cambrige Analytica promettendo una nuova politica di controllo sull’utilizzo dei dati da parte di terzi.

Le implicazioni negative per Facebook tuttavia non si limitano al solo campo economico. I parlamenti di Regno Unito e Unione Europea hanno chiesto proprio al fondatore di Facebook di comparire per dare spiegazioni in merito alla vicenda Cambridge Analytica.

La reazione della politica, d’altro canto, costituisce il riflesso dell’inquietudine di un’opinione pubblica che sta cominciando a interrogarsi su cosa può accadere quando i dati raccolti dai grandi colossi della rete finiscono nelle mani sbagliate. Se un tempo il timore era legato soprattutto a data breach e ad attacchi hacker, oggi si aggiunge la prospettiva concreta che una di queste grandi aziende, per negligenza o connivenza, lasci che i dati in suo possesso vengano veicolati a terzi all’insaputa dei suoi utenti.

Il GDPR, una normativa europea sulla privacy che entrerà in vigore a maggio, è stata pensata anche per cercare di mettere un freno al flusso incontrollato di dati da parte di chi ne entra in possesso. Con il GDPR chiunque detiene dati sarà obbligato a dichiararne all’utente l’uso specifico che ne fa e impedire che vengano ceduti (o sottratti) senza l’esplicito consenso da parte di quest’ultimo. Una legge che riguarda tutti ma che si rivolge soprattutto a chi possiede quantità enormi di dati i sensibili, come Facebook, Google o Amazon. Anche una stretta a livello normativo potrebbe però non bastare a scongiurare un abuso dei dati raccolti in rete a danno degli utenti. Questo perché in futuro, semplicemente, non ci sarà più bisogno di sottrarli in maniera illecita.

Facebook, in quanto azienda, ha lavorato negli ultimi anni sugli algoritmi dei suoi social per garantire all’utente di avere nella sua dashboard contenuti sempre più adatti a incontrare la sua approvazione. La ragione è semplice: essendo un’impresa privata, Facebook vive soprattutto grazie al denaro proveniente dagli inserzionisti che pagano per poter veicolare contenuti sponsorizzati. Quindi, più l’algoritmo è capace di soddisfare i bisogni e le esigenze degli utenti, più questi ultimi saranno ben disposti verso i contenuti che le piattaforme social propongono. E più gli utenti compiono le azioni desiderate dagli inserzionisti (acquisto, iscrizione newsletter, indicazione dati ecc.), più questi ultimi saranno invogliati a comprare “spazi” da Facebook.

Se c’è qualcosa che il marketing insegna è però che desideri e bisogni possono essere manipolati o creati ex novo. Algoritmi che consentono profilazioni sempre più raffinate e precise sono strumenti perfetti per agire a livello psicometrico. In ambito politico si tratta di un potenziale tanto straordinario quanto inquietante. Storicamente la propaganda ha sempre dovuto agire a livello sociale o, alla meglio, per gruppi sociali. Non era possibile convincere tutti, quindi si provava a convincere un numero sufficiente di persone utili al raggiungimento degli obiettivi. La targetizzazione offerta dai big data può portare a un cambio totale di prospettiva. Si può agire sulla singola persona, produrre e promuovere contenuti ad hoc, creando una sorta di “bozzolo” (concetto noto in inglese come Echo Chamber) in cui la persona vede e conosce solo ciò che preferisce, anzi, a ciò che ritiene di preferire.

Nei prossimi anni forniremo tutti una mole di dati molto più grande di quanto non sia mai accaduto in precedenza, sia perché grazie all’Internet delle cose saremo online attraverso un sempre maggior numero di dispositivi un tempo semplici oggetti di uso comune (lavatrice, frigorifero ecc.), sia perché il mercato del dato farà sempre più gola e prospereranno benefit e servizi a nostro vantaggio la cui “sola” contropartita sarà quella di lasciare dei dati (un esempio che viviamo già oggi sono le numerose promozioni del tipo “metti un like/scatta una foto e pubblicala sui social e ricevi uno sconto”). Più aumenta la quantità e qualità dei dati in rete, minore sarà la necessità da parte della Cambridge Analytica di turno di sottrarli per vie illegali.

Fino a questo momento governi autoritari hanno ritenuto che il modo migliore per sfruttare Internet ai propri fini fosse selezionarne i contenuti rendendo inaccessibili quelli considerati non graditi, si pensi a Google in Cina o, più recentemente, a Wikipedia in Turchia. Potrebbe quindi non essere più necessario per un qualunque potere autoritario censurare e bloccare; basterebbe solo rendere poco accessibili i contenuti sgraditi e, al contempo, garantire l’afflusso in massa di contenuti a suo vantaggio. Una prospettiva capace di uccidere ogni dinamica democratica senza intaccarne minimamente la forma. Per tutto il resto ci sono sempre i dati sensibili che riconducono direttamente alla singola persona e reperibili in via più o meno lecita online, i quali già oggi consentono di organizzare una campagna di sensibilizzazione che vede un apparente mago capace di “leggere” realmente nella vita dei passanti (dalle esperienze dell’infanzia al saldo sul conto corrente) grazie alle informazioni che quest’ultimi lasciano su siti, motori di ricerca e social network.

Ciò che l’analisi dei dati ci dice in merito a ciascuno è infatti direttamente collegato e proporzionale ai dati che ciascuno dà “in pasto” all’algoritmo. Ciò che rende queste analisi big data così formidabili nel tracciare il profilo di una persona è che le fonti sono il frutto di azioni libere e spontanee da parte degli utenti. Purtroppo, a oggi, non c’è società, anche quella più digitalmente avanzata, che non viva un nuovo tipo di analfabetismo di massa diffuso. Accettare un cookie senza neanche sapere cosa quest’ultimo sia non è troppo diverso da quando un operaio nel XIX secolo firmava clausole vessatorie apponendo una X, ed è esattamente ciò che facciamo ogni volta che accediamo a un nuovo contenuto online.

Vivremo in un mondo digitale caratterizzato da dati. Averne paura o terrore non serve, men che meno illudersi di poter tornare indietro. Ciò che occorre, tuttavia, è essere consapevoli che conoscere dove vanno a finire i propri dati è importante quanto sapere dove si trovano le proprie chiavi di casa o la propria carta d’identità, anche perché bastano ormai pochi clic a far sì che un’azienda specializzata possa identificarci meglio e più approfonditamente di qualsiasi documento cartaceo.