Δημοκρατία

Democratizzare la tecnica (Lello Demichelis)

La democrazia. Sembra facile dire cosa sia, in realtà è difficilissima da definire e da realizzare, sempre a rischio di tradirsi in altro e di morire. Come accade quando la democrazia diventa solo formale; quando il potere viene espropriato da élite, oligarchie, autocrazie, tecnocrazie, populismi; quando la democrazia si suicida democraticamente (il Brasile di Bolsonaro); o quando viene trasformata dalla tecnica come sistema e da tecnologie di rete che generano disruption anche della democrazia, della polis e della politica (ed è negli obiettivi di parte della Silicon Valley e dei suoi anarco-capitalisti modificare la democrazia in un network/social), pur offrendosi esse stesse come democratiche (ma dove Cambridge Analytica o l’ultimo hackeraggio in Germania sono solo la punta dell’iceberg). Ripartiamo allora dalla questione posta in chiusura del nostro articolo dello scorso 27 dicembre. Come democratizzare la tecnica – ammesso che questo sia possibile.

Tecnica e capitalismo sono una cosa sola
La tecnica ucciderà la democrazia, ha detto – e noi condividiamo – il filosofo Emanuele Severino; ma a differenza di Severino (che li crede diversi) noi sosteniamo che tecnica e capitalismo sono una cosa sola (appunto: tecno-capitalismo), perché i loro scopi apparentemente diversi – l’accrescimento infinito del profitto privato, il capitalismo; l’accrescimento infinito della propria potenza, la tecnica – sono funzionali e integrati l’uno all’altro.

Entrambi hanno il superamento di ogni limite/ostacolo come essenza della propria volontà di potenza (diversa però da quella immaginata da Nietzsche); entrambi vivono di velocizzazione e di accelerazione infinita e di stato di eccezione permanente; entrambi sono deterministici/teleologici/teologici (non ci sono alternative; l’innovazione non si deve fermare), quindi cancellano il dissenso e la ricerca di alternative; entrambi suddividono la società e l’individuo in frammenti senza senso (da individuo a divisum, «scomposto cioè in una molteplicità di funzioni» – Anders) senza coerenza e senza responsabilità, ma ciascuna funzione attivata al massimo della sua performatività.

Entrambi alienano ciascuno da se stesso, dalla comprensione dell’insieme in cui viene inserito, dalla proprietà del proprio lavoro e dei mezzi di produzione (che oggi sono le piattaforme/algoritmi – puro capitalismo) – portando però ciascuno a identificarsi con l’apparato (e il dispositivo/comando del tecno-capitalismo era stato già ben chiarito dai francofortesi Horkheimer e Adorno: «ciascuno deve identificarsi senza riserve con il potere che lo sconfigge», sia esso industria culturale, impresa, consumismo, oggi rete/social) e a delegare alla tecnica (algoritmi, machine-learning, app, IoT) ogni decisione.

La tecnica è a-democratica e anti-democratica
Il tecno-capitalismo inoltre verticalizza le relazioni sociali (e le fa virtuali) e i rapporti di lavoro (con uberizzazione, lavoro on demand, ecc.); rimuove i corpi sociali – intermedi e di mediazione/partecipazione collettiva – illudendo di una partecipazione diretta e immediata via rete (dai tweet di Salvini e di Trump ai like dei social).

Anche il ruolo della politica, «intesa come governo di una società fatta di uomini con l’intento, come voleva Aristotele, di creare per essi le condizioni di una ‘vita buona e felice’ è definitivamente tramontata e sostituita da una concezione della politica che non governa più uomini, ma azioni, interazioni, funzioni, specifiche competenze (…) perché solo così la complessità sociale diventa compatibile con il calcolo tecnico», cioè con la ragione strumentale/calcolante della tecnica, oggi declinata in dati e algoritmi.

La tecnica, infatti, tende a smaterializzare l’esperienza collettiva e la progettualità umana (quella secondo Aristotele, ma anche secondo gli illuministi o – altrimenti – il marxismo), permettendo solo una politica «come tecnica funzionale, [che però] sancisce la fine della memoria e, sottraendosi in questo modo alla storia, si nega anche come prospettiva, come sguardo su un mondo possibile, a meno che la possibilità non si risolva solo nei risultati resi disponibili dalla tecnica». Tutti processi, quelli elencati, a-democratici/anti-democratici. Alienanti da ogni progettualità umana.

Democrazia è sovranità della cittadinanza
La democrazia moderna invece – è la sua essenza – conosce e pratica il bilanciamento dei poteri al proprio interno, è orizzontale anche quando è rappresentativa e soprattutto conosce e pratica il concetto di limite e persegue quindi il controllo di ogni volontà di potenza e di ogni eccedenza/eccesso di un potere sugli altri.

La democrazia si basa poi sul concetto di libertà, uguaglianza e solidarietà e la maggioranza sa che non deve e non può limitare i diritti delle minoranze (di qualsiasi genere e tipo) e che ciascuno ha diritto ad avere diritti ma che la libertà di ciascuno ha un limite nella libertà degli altri.

La democrazia inoltre sa (come ammoniva Platone) che la fretta uccide il pensiero, ma soprattutto il dialogo e la consapevolezza della decisione; sa che una grammatica democratica comune non deve impedire il diritto alla critica e che democrazia significa sovranità/potere del demos, che non è il popolo dei populismi o della rete, ma è il demos della cittadinanza. La cittadinanza poi si compone di diritti umani e civili, di diritti politici, poi di diritti economici e sociali.

La necessità di introdurre diritti “tecnici”
A una vera cittadinanza mancano invece ancora (di questo vogliamo qui ragionare) i diritti tecnici, i diritti cioè del cittadino quando è inserito/integrato/connesso in apparati tecnici che sono – non dimentichiamolo mai – imprese private ma nei confronti delle quali non basta più recuperare una democrazia economica, perché questa tecnica è diversa da quelle del passato, è fine e non più mezzo, vive di datificazione, di convergenza di apparati e uomini in apparati sempre più grandi (Anders) e oggi di crescente ibridazione uomo-macchina (un’altra forma di convergenza) – e di controllo, come mai in passato.

Diritti tecnici quindi da introdurre con urgenza, riconoscendo che se la democrazia politica oggi non sta troppo bene (populismi, sovranismi, tecnocrazie, autocrazie, fascinazione per l’uomo forte); e che se anche la democrazia economica e sociale (quella prescritta in Costituzione, che ha avuto nelle politiche keynesiane e di welfare state post-1945 i suoi punti più alti) è in fase regressiva/repressiva per l’azione anti-sociale e anti-democratica del neoliberalismo, molto (o quasi tutto) dipende dalla totale assenza di una democrazia tecnica, capace cioè di democratizzare apparati tecnici anti-democratici per vocazione – controllandoli e governandoli da parte di quella tecnica regia che è sempre e solo la politica e che (secondo Platone) ogni altra tecnica deve finalizzare al bene comune.

I cinque miti di oggi
Massimiliano Panarari ha definito così i cinque miti di oggi – e che discendono dalla tecnica:

  • Popolo (anche o soprattutto della rete);
  • Autenticità («la dilatazione e l’espansione dell’ego e l’aspirazione all’autorealizzazione di sé sono andate a braccetto con una sempre più spasmodica ricerca di ciò che è autentico» oppure offerto come autentico dal sistema);
  • Tecnologia (dimenticando che «i media non sono neutri, ma influenzano in maniera massiccia e incontrovertibile l’utente, sia dal punto di vista della forma mentis che della sensorialità», perché la forma e la norma tecnica – e qui torna di attualità ancora Günther Anders – determinano di fatto «i contenuti del pensiero e le sue modalità di espressione»);
  • Disintermediazione (parola-magica della rete e del populismo mentre in realtà i populisti, ma lo stesso dicasi per i social e i motori di ricerca, «stanno avocando a sé una funzione di re-intermediazione», con il popolo della rete che «si affida alle meraviglie del web convinto di avere ottenuto una sfera di libertà e una possibilità di azione illimitata, senza accorgersi» di delegare se stesso agli oligopolisti della rete e alla loro gerarchizzazione della conoscenza e della vita);
  • Democrazia diretta, con Davide Casaleggio che auspica e progetta il superamento della democrazia rappresentativa in nome non tanto dell’uno vale uno promesso e offerto dalla rete (è una fake news ad alto tasso di fascinazione), ma della nuova delega di sovranità questa volta agli algoritmi, a chi li gestisce e alla loro «algida algocrazia».


Se la privacy viene prima delle libertà di individuo e democrazia
Democrazia è dunque termine scivolosissimo – e già Raymond Aron, negli anni ’60 scriveva che «se si conviene di chiamare così il potere del popolo, si può chiamare democratico qualsiasi regime, compreso un regime totalitario che si appoggia sulla volontà popolare», termine che quindi si presta ad essere usato per produrre anche il proprio contrario.

Come Henry Ford un secolo fa, all’insegna della democratizzazione dell’automobile, che era una falsificazione deliberata del concetto perché democratizzare l’automobile significava e ha significato privatizzare i profitti ma socializzare le perdite, sia sociali (alienazione, sfruttamento), che ambientali (inquinamento, effetto serra) – quando invece sarebbe stato necessario democratizzare il trasporto pubblico. Oggi qualcosa di simile – democratizing technology – si ripropone per la rete e si parla di democratizzazione dei dati ma non per definire – come dovrebbe essere in democrazia – il controllo del demos sull’uso che soggetti privati fanno dei nostri dati per il proprio profitto, ma per indicare l’esigenza di trasferire anche alle piccole e medie imprese (ecco la democratizzazione secondo tecnica e capitalismo – sic!) la capacità di profilare gli individui (clienti o consumatori che siano).

Conferma da parte sua Lorenzo Luce (sulla scia di Mark Zuckerberg), neo-componente del gruppo di lavoro che al Mise si occuperà di Intelligenza Artificiale: «il problema è il concetto di privacy che in tutta Europa viene tutelato troppo. C’è un garantismo eccessivo sui dati, mentre negli Stati Uniti e in Cina non hanno questi freni. Dobbiamo fare in modo che si riduca questo divario tecnologico». Quindi: meno privacy – perché è un freno all’innovazione tecnica, che viene quindi prima della libertà dell’individuo e della democrazia, che quindi si devono subordinare alle esigenze dell’innovazione.

La neolingua del tecno-capitalismo
In realtà la privacy – uno spazio e un tempo privati che non possono e non devono essere violati dallo stato o da altri soggetti – è il fondamento stesso della democrazia perché è l’essenza della libertà/soggettività dell’individuo e quindi della democrazia moderna (non c’è infatti democrazia se tutti sono spiati e controllati e/o inseriti nella società amministrata di francofortese memoria).

Dunque, anche il tecno-capitalismo crea la sua neo-lingua per produrre, trasformando il senso delle parole per i propri fini, i comportamenti voluti e necessari – come rinunciare alla privacy per essere profilati/spiati meglio. Il risultato è un potere tecnico ed economico (Big Data, A.I., social) nuovamente non democratico – proprio perché nega il principio per cui in democrazia l’agire politico (e oggi anche tecnica e capitalismo agiscono politicamente e nella polis) deve essere pubblico, messo sotto gli occhi del demos – ma che ci vuole al tempo stesso totalmente trasparenti e controllabili e integrati, come ogni potere totalitario che si rispetti. Un’alienazione dalla libertà, dalla democrazia, dalla sovranità – una totale asimmetria di potere, quindi anti-democratica in sé – che si compie e si accresce quanto più deleghiamo alla tecnica ogni decisione/possibilità della nostra vita.

L’impresa autocratica come modello sociale
Scriveva Michel Foucault nella sua analisi sulla nascita della biopolitica liberale: «In altre parole, si tratta di generalizzare, diffondendole e moltiplicandole quanto possibile, le forme ‘impresa’ (…). Si tratta di fare del mercato, della concorrenza, e dunque dell’impresa, quella che si potrebbe chiamare la potenza che dà forma alla società». Perché l’idea degli ordoliberali (ma si veda anche il neoliberista Gary Becker) era quella (sempre Foucault) di «prendere il tessuto sociale e fare in modo che possa scomporsi, suddividersi, frazionarsi, non [solo] secondo la grana degli individui [la divisione del lavoro e della vita], bensì secondo quella dell’impresa. (…) facendo dell’uomo e della sua vita una sorta di impresa permanente e multipla».

Ma quale modello di impresa? Nell’impresa, scriveva Wilhelm Röpke nel 1963, la democrazia è fuori luogo, come in una sala operatoria. Ma è proprio questo modello – e questo paragone deliberatamente fuorviante – che si replica oggi nei social come Facebook (Zuckerberg ne è il dittatore/autocrate), in imprese come Amazon (Bezos è imprenditore autocrate e sfruttatore), in tutto il capitalismo delle piattaforme.

Un modello – al di là delle retoriche sul lavoro come collaborazione, sui manager empatici e motivatori, sull’impresa come comunità di lavoro – cattivo/feroce e di competizione di tutti contro tutti per accrescere la prestazione di ciascuno oltre i limiti del ragionevole (ancora il taylorista Bezos). Al confronto, quasi sembrano virtuosi e gentili i Tempi moderni di Chaplin (1936), perché la fabbrica-rete dove tutti sono messi oggi al lavoro sembra farci regredire a Tempi (retro)moderni. Dove anche il sindacato viene indebolito per far mancare quel contropotere e quel bilanciamento di poteri dentro i luoghi di lavoro che pure aveva permesso di realizzare una (anche se molto imperfetta) democratizzazione economica e politica. Era il sogno di Ford, di Taylor e del modello Toyota – che oggi si realizza grazie alla tecnica – quello di azzerare in fabbrica il sindacato e la democrazia. Ma se l’impresa è il modello per trasformare l’intera società e ogni individuo (ridotto da cittadino a capitale umano/dato); e se questo modello esclude appunto in sé e per sé ogni democrazia, allora è l’intera società – pianificata e costruita su questo modello da tecnica e neoliberalismo – a divenire senza democrazia.

Di più: secondo Röpke (ma non solo) «l’ordine economico deve integrarsi negli altri, più ampi, e più alti ordini, da cui dipende il successo dell’economia di mercato e che a loro volta lo presuppongono» – ma «ciò che propone Röpke è analogo a chiedere che un ordine religioso o un’ideologia politica si sovrappongano – oppure orientino/indirizzino (integrandosi negli altri ordini) – alla legge e alle istituzioni di uno stato. Niente di più illiberale». E di anti-democratico.

Distruzione creatrice, disruption, volontà di potenza
Torniamo al concetto di limite. E alla volontà di potenza che è innata a tecnica e capitalismo (il capitale è lo smisurato – scriveva Marx; ma ugualmente vale per la tecnica) e che appunto contraddice il concetto di limite. Per il tecno-capitalismo distruggere è la precondizione per creare (Schumpeter), che oggi si ridefinisce in modernità liquida (Bauman) o in disruption, in innovazione continua e incessante a prescindere dalla valutazione consapevole della sua utilità sociale – come richiesto invece, ad esempio dall’articolo 41 della Costituzione. 

Ovvero, nel tecno-capitalismo, la norma da far apprendere (per la socializzazione di ruolo/funzione di ciascuno alla tecnica e al capitalismo) è quella (sempre Bezos) per cui nell’impresa (e per l’uomo-impresa modellato sull’impresa) è sempre il primo giorno (che è sperimentazione, innovazione, energia, velocità, dinamismo, vitalità); mentre il secondo giorno è già la stasi, la lentezza, il declino e la morte dell’impresa– e se poi, per conseguenza, muoiono la democrazia e la società, poco importa perché, come diceva il neoliberista von Hayek, meglio una dittatura favorevole al mercato che una democrazia contraria al mercato. Anche l’idea di una kantiana e illuministica pace perpetua contraddice il principio della competizione/distruzione creatrice/disruption – che è una forma di guerra combattuta con altri mezzi.

Qualcosa di antico, tuttavia. Scriveva Karl Marx, nei Grundrisse, che il mercato mondiale è la tendenza del capitalismo (ma si legga anche il Manifesto del partito comunista, del 1848), per il quale ogni limite si presenta come un ostacolo da superare, perché diversamente cesserebbe di essere capitale, denaro che si autoproduce.

Allora gli ostacoli al capitalismo erano le forme di produzione pre-capitalistiche; oggi, per il tecno-capitalismo sono la democrazia, la responsabilità per la biosfera e le future generazioni, il principio di precauzione, i diritti del lavoro, la solidarietà, la privacy, la libertà. Perché l’individuo non deve cercare di essere se stesso, bensì imprenditore di se stesso, cioè funzionale al sistema tecnico ed economico al massimo della sua creatività (ma solo se funzionale alle esigenze di innovazione/disruption del sistema).

Conclusioni (provvisorie)
Sarebbe (è) quindi necessaria una nuova laicità capace di separare società/democrazia dal potere eccedente e religioso-totalitario del tecno-capitalismo, impedendo che il mercato e la tecnica diventino, a prescindere dal demos, l’ordine (le forme e le norme) sovrapposto al mondo.

La società e la democrazia devono imparare quindi – a controllare e regolamentare/ridurre questo potere eccedente e totalitario – e a farlo ad esempio rendendo illegale sempre e comunque (a parte alcune eccezioni come la tutela della salute individuale o l’analisi statistica), la profilazione delle persone – che per altro già viola l’articolo 15 della Costituzione: La libertà e la segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione, sono inviolabili); o gestendo democraticamente i dati.

Per questo è necessario tornare – per evitare che la tecnica uccida la democrazia – al concetto e al senso della possibilità: inteso secondo Salvatore Veca come «il senso del nostro reputare qualcosa possibile» – un reputare che sia nostro, cioè umano e sociale e non più dettato dal tecno-capitalismo – per continuare a far esistere (passando dalla possibilità alla capacità di farlo) una molteplicità di possibilità.

Magari recuperando ancora Marx, per ribadire – in un tecno-capitalismo che ci vuole parti di uno sciame fatto di individui isolati ma connessi nel sistema olistico/teologico/teleologico tecno-capitalista, dominati da un inconscio produttivo a volontà di potenza e di violenza crescente e socializzata – che è l’uomo che deve progettare e ragionare per poi agire, perché il peggiore architetto è sempre superiore alla migliore ape. Un architetto – o il giardiniere illuminista secondo Bauman, capace di progettare e di realizzare e poi di manutenere il suo giardino – ma collettivo e partecipativo/progettuale. Che faccia del controllo democratico della (volontà di) potenza della tecnica la sua pratica quotidiana e incessante – secondo il principio: No Innovation without Representation and Participation, richiamato ancora da Salvatore Veca.