Colton Burpo

L'appendice perforata
Il piccolo Colton il 3 marzo 2003 cominciò a stare male, ad avere un forte mal di pancia. Poi il vomito. Stava sempre peggio, finché i medici fecero la loro diagnosi: appendice perforata. Fu operato d’urgenza a Greeley, in Colorado.

Durante l’operazione la situazione sembrò precipitare. Il bambino era messo molto male e passò qualche minuto assai critico. Poi però si era ripreso. Per i genitori era stata un’esperienza terribile. Lacrime e preghiere in gran quantità, come sanno tutti coloro che son passati da drammi di questo genere.

Quattro mesi dopo
Quattro mesi dopo, il 4 luglio, la famiglia Colton si concesse un po' di vacanza; erano tuti in macchia, padre (Tod, Pastore Metodista), madre (Sonya), Colton e la sorella (Cassie), quando passarono davanti al Great Plains Regional Medical Center, il luogo dove avevano vissuto la scioccante esperienza.

Quindi, per esorcizzare il brutto ricordo, il padre dice scherzosamente al figlio: «Ehi, Colton, se svoltiamo qui possiamo tornare all’ospedale. Che ne dici, ci facciamo un salto?». Il bambino fa capire che ne fa volentieri a meno.

Gli angeli
La madre sorridendo gli dice: «Te lo ricordi l’ospedale?». Risposta pronta di Colton: «Certo, mamma, che me lo ricordo. È dove ho sentito cantare gli angeli». Gli angeli? I genitori si guardano interdetti. Era la prima volta che lo sentivano parlare così.

Il bimbo, su richiesta dei genitori, racconta allora con naturalezza i particolari: «Papà, Gesù ha detto agli Angeli di cantare per me perché avevo tanta paura. Mi hanno fatto stare meglio».

«Quindi, c’era anche Gesù?». Domanda il padre. Il bimbo fa di sì con la testa come se stesse confermando la cosa più banale del mondo. “Sì, c’era Gesù”».

«E dov’era di preciso?» domanda ancora il signor Burpo. Il figlio lo guarda dritto negli occhi e risponde: «Mi teneva in braccio». I due genitori allibiti pensano che abbia fatto un sogno nel periodo d’incoscienza. Ma poi vacillano quando Colton aggiunge: «Sì. Quando ero con Gesù tu stavi pregando e la mamma era al telefono».

Vi vedevo
Alla richiesta di capire come fa lui, che in quei minuti era in sala operatoria in stato d’incoscienza, a sapere cosa stavano facendo i genitori, il bambino risponde tranquillamente: «Perché vi vedevo. Sono salito su in alto, fuori dal mio corpo, poi ho guardato giù e ho visto il dottore che mi stava aggiustando. 

E ho visto te e la mamma. Tu stavi in una stanzetta da solo e pregavi; la mamma era da un’altra parte, stava pregando e parlava al telefono». La cosa sembra essere finita lì.

Gesù
Ma un giorno, tornato di sotto dove normalmente giocava, trovai Colton sul pavimento, ancora impegnato a bombardare gli alieni. Mi sedetti accanto a lui. «Posso farti qualche altra domanda su Gesù?» Annuì, senza staccare gli occhi dall’assalto devastante contro un mucchietto di X-Men.

«Che aspetto aveva?» Posò immediatamente i giocattoli e mi guardò. «Gesù ha delle macchie.[NDR. I segni dei chiodi]» «Come?» «Sì, delle macchie. E poi ha i capelli marroni e dei peli in faccia» spiegò passandosi la manina sul mento.

Evidentemente non conosceva ancora la parola «barba». «E gli occhi… Ha degli occhi così belli!» Sul viso gli si dipinse un’espressione sognante e rapita, come se stesse assaporando un ricordo dolcissimo.

«E com’era vestito?» La mia domanda lo riportò alla realtà. «Aveva una cosa color porpora» rispose con un sorriso, facendo scorrere la mano dalla spalla sinistra al fianco destro, su e giù. «I vestiti erano bianchi, ma da qui a qui c’era una cosa color porpora.»

Un’altra parola sconosciuta: stola. «Gesù era l’unico, in cielo, a indossare la porpora. Lo sapevi, papà?» Secondo le Scritture, il porpora è il colore dei re. Mi tornò subito in mente un versetto del Vangelo di Marco: «… e le sue vesti divennero splendenti, bianchissime: nessun lavandaio sulla terra potrebbe renderle così bianche».

«E in testa aveva una cosa d’oro…» cinguettò entusiasta, formando un cerchio con le mani sopra i capelli. «Una corona?» «Sì, una corona, e al centro c’era una specie di diamante, era tipo… rosa. E poi aveva le macchie.»

In ogni caso, la sola domanda che mi venne in mente in quel momento fu: «Com’erano i bambini? Che aspetto hanno le persone in Paradiso?». «Hanno tutti le ali.»

Davvero? «Anche tu?» «Sì, però le mie non erano molto grandi» ammise con un velo di tristezza negli occhi. «E dimmi… andavi in giro a piedi oppure volavi?» «Volavamo. Cioè, tutti a parte Gesù. Era l’unico che non aveva le ali. Andava su e giù come un ascensore.»

Il funerale
Un paio di settimane più tardi, cominciai a prepararmi per celebrare un funerale. Una mattina Colton entrò in salotto e iniziò a tirarmi un lembo della camicia. «Papà, cos’è un funerale?» Da quando era nato ne avevo celebrati diversi, ma evidentemente adesso stava attraversando la tipica fase in cui i bambini vogliono sapere il perché e il percome di ogni cosa. «Be’, piccolo, un funerale si celebra quando qualcuno muore. Un signore è morto e la sua famiglia oggi verrà in chiesa per salutarlo.» 

Il suo atteggiamento cambiò all’istante. Si fece serio in volto e mi fissò con determinazione. «Quel signore aveva Gesù nel cuore?» Mio figlio mi stava domandando se il defunto in questione fosse un cristiano che aveva accettato Gesù Cristo come suo Salvatore. 

L’intensità di quella richiesta mi colse impreparato. «Non ne sono sicuro, Colton» risposi. «Non lo conoscevo molto bene.» Sul suo viso si dipinse una smorfia di tremenda apprensione. «Doveva avere Gesù nel cuore! Doveva per forza conoscere Gesù, sennò non può andare in Paradiso!» 

Tutto quel trasporto mi sorprese di nuovo, soprattutto perché quell’uomo era un perfetto sconosciuto per lui. Cercai di rassicurarlo come meglio potevo. «Ho parlato con la sua famiglia, e mi hanno detto che sì, aveva Gesù nel cuore.» Colton non sembrava del tutto convinto, ma si rilassò leggermente. «Ah… okay» mormorò andandosene.

Il bisnonno
Un giorno chiamai Colton nel seminterrato e presi dal cassetto fotografia di Babbo (mio nonno). «Io lo ricordo così» dissi. Reggendo la cornice tra le mani, mio figlio rimase a contemplare la foto per un paio di minuti. Mi aspettavo che, riconoscendolo, gli si illuminasse il viso, ma rimasi deluso. Al contrario, si accigliò e scosse la testa. «Papà, nessuno è vecchio in Paradiso. E nessuno porta gli occhiali.» Poi si girò e salì le scale a passo deciso. Nessuno è vecchio in Paradiso. 

Qualche tempo dopo, telefonai a mia madre. «Ehi, non avresti delle foto di tuo padre da giovane?» Trascorsero alcune settimane. Poi, un giorno, aprii la cassetta delle lettere e trovai una busta di mia madre con la fotocopia di un vecchio ritratto in bianco e nero. Nella foto c’erano quattro persone tra cui mio nonno che nel 1943, quando era stata scattata la foto, era ancora un aitante ventinovenne. 

Quella sera, lo chiamai in camera nostra, di sopra. Quando arrivò, dopo qualche minuto, gli mostrai la fotocopia spedita da mia madre. «Ehi, vieni a dare un’occhiata» dissi, allungandogli il foglio. «Che te ne pare?» Lui lo prese, abbassò lo sguardo, poi tornò ad alzarlo su di me, con gli occhi sgranati per la sorpresa. «Ehi!» esclamò, sprizzando felicità. «Dove l’hai trovata questa foto del bisnonno?» Io e Sonja ci scambiammo un’occhiata sbalordita.

La sorellina morta in grembo
Colton un giorno disse alla madre. «Mamma, io ho due sorelle» disse. Appoggiai la penna. Sonja continuò imperterrita a lavorare. «Mamma, io ho due sorelle» ripeté lui. Mia moglie alzò distrattamente lo sguardo dalle sue carte e scosse appena la testa. «No, ne hai una sola, Cassie… o forse intendi tua cugina, Traci?» 

«No.» La risposta di Colton fu secca e risoluta. «Ho detto che ho due sorelle. Una ti è morta nella pancia, vero?» In quel momento, in casa Burpo il tempo si fermò. Sonja era sbalordita. 

Appena pochi secondi prima, Colton aveva cercato inutilmente di attirare la sua attenzione. Adesso, persino dalla cucina, mi rendevo conto che ci era riuscito, eccome. «Chi ti ha detto che mi è morto un bambino nella pancia?» chiese Sonja, in tono severo. «Me lo ha detto lei, mamma. Mi ha spiegato che era morta nella tua pancia.»

A quel punto nostro figlio si girò e fece per andarsene. Aveva detto quel che aveva da dire, e per lui la faccenda era chiusa. Ma dopo aver sganciato una bomba del genere, per Sonja quello era solo l’inizio. Prima che potesse aggirare nuovamente il divano, nella voce di sua madre risuonò l’allarme rosso: «Colton Todd Burpo, torna subito qui!». 

Lui si girò di scatto e incrociò il mio sguardo. Negli occhi gli si leggeva: “Cos’ho fatto di male?”. Non mi era difficile indovinare i sentimenti di mia moglie. La perdita di quel bambino era stato l’evento più doloroso della sua vita. Cassie era più grande, a lei lo avevamo spiegato, ma con Colton non ne avevamo fatto parola, convinti che l’argomento superasse le capacità di comprensione di un bambino di quattro anni.

Rimasi seduto dov’ero, a osservare in silenzio le emozioni che si rincorrevano sul volto di Sonja. A testa bassa, un’ombra di nervosismo negli occhi, Colton rifece il giro del divano e tornò ad affrontare sua madre, con aria più guardinga. «Non preoccuparti, mamma. La sorellina sta bene. L’ha adottata Dio.» 

Sonja scivolò giù dal divano e si inginocchiò davanti a lui per guardarlo negli occhi. «Intendi dire che l’ha adottata Gesù?» «No, mamma. L’ha adottata suo papà!»

Mia moglie si girò a guardarmi. In quell’istante, mi spiegò in seguito, si era imposta di restare calma, ma si sentiva sopraffatta dall’emozione. Il nostro bambino… era – è! – una bambina. 

Quando tornò a concentrarsi su Colton, avvertii distintamente lo sforzo che le costava controllare il tremito della voce: «E com’era?». «Assomiglia molto a Cassie» rispose lui. «Solo che è un po’ più piccola, e con i capelli scuri.» 

Gli stessi colori di Sonja. Sul viso di mia moglie si dipinse un’espressione di dolore misto a gioia. Dovete sapere che Cassie e Colton sono biondi. In passato, lei se n’era persino lamentata, scherzandoci sopra: «Io li ho portati dentro per nove mesi, e loro sono venuti fuori tutti e due identici a te!». 

Adesso, invece, scopriva di avere avuto una bambina che le somigliava. Le luccicavano gli occhi. Colton proseguì senza bisogno di essere spronato. «Mentre ero in Paradiso, mi è corsa incontro una bambina, e non la finiva più di abbracciarmi» disse, con un tono che indicava chiaramente quanto poco aveva apprezzato quelle smancerie da femmina. 

«Forse era solo contenta di vedere qualcuno della sua famiglia» suggerì Sonja. «A noi ragazze piacciono gli abbracci, sai? Quando siamo felici, ci viene voglia di abbracciare tutti.» Lui non sembrava convinto. «Come si chiamava la piccolina?» gli domandò poi, emozionatissima. 

Per un attimo Colton sembrò dimenticare quegli abbracci appiccicosi. «Non ce l’ha un nome. Non gliel’avete dato.» Come faceva a saperlo? «Hai ragione, tesoro» ribatté Sonja. «Non sapevamo nemmeno che fosse una bambina…» 

Subito dopo Colton pronunciò una frase che non potrò mai dimenticare: «Già. Ha detto che non vede l’ora di ritrovarvi in Paradiso». 

Dalla cucina, mi accorsi che mia moglie non riusciva più a trattenere la commozione. Baciò nostro figlio e gli diede il permesso di andare a giocare. Appena lui uscì, le lacrime iniziarono a rigarle le guance. «La nostra bambina sta bene» sussurrò. «La nostra piccola sta bene.»