IL MADE IN ITALY E LA NORMATIVA DI RIFERIMENTO


1.      Premessa

2.      “Made in Italy” Situazione Attuale

3.      Legge 24 dicembre 2003 n° 350 (Finanziaria 2004)

4.      Decreto Legge 14 marzo 2005 n° 35 (Decreto Competitività) convertito in Legge 14 maggio 2005 n°80

5.      Decreto Legge 25 settembre 2009 n° 135 convertito in Legge 20 novembre 2009 n° 166

6.      Legge 08 aprile 2010 n°55

7.      Conclusioni

 

1 – PREMESSA

Prima di procedere all’esame della normativa sulla legittima applicazione del marchio d’origine “Made in Italy” è utile procedere ad una preliminare ricognizione del corretto significato di espressioni quali origine, provenienza, origine doganale preferenziale, e origine doganale non preferenziale.

§  L’origine di un prodotto è l’indicazione del luogo in cui la materia prima è nata o è stata allevata/coltivata/pescata.

§  La provenienza indica, invece, l’ultimo stabilimento nel quale il prodotto è stato manipolato e/o stoccato.Esempio: la carne bovina con origine irlandese ha provenienza olandese se il bovino è nato in Irlanda mentre la macellazione è avvenuta in Olanda.

Ora, le merci importate da paesi esteri si suddividono in merci di origine doganale preferenziale e merci di origine doganale non preferenziale.

§  L’origine doganale preferenziale riguarda i prodotti, che soddisfano precisi requisiti, importati da alcuni Paesi e consiste nella concessione di benefici daziari all’importazione (riduzione di dazi o loro esenzione, abolizione di divieti quantitativi o di contingentamenti).Alla base vi è generalmente un accordo siglato dall’Unione Europea con i vari Paesi esteri (c.d. “Paesi Associati”) attraverso il quale, per lo scambio di determinati prodotti riconosciuti come “originari” di uno dei Paesi contraenti, viene riservato, appunto, un “trattamento preferenziale”.

§  Per origine doganale non preferenziale si intende, invece, il luogo di produzione del bene o il luogo dove lo stesso ha subito l’ultima sostanziale trasformazione.Al fine di acquisire l’origine non preferenziale italiana un prodotto deve, quindi, subire una trasformazione sostanziale sul territorio italiano indipendentemente dalle eventuali percentuali di merce nazionale o estera impiegata nella produzione.

 

2 – “MADE IN ITALY”: SITUAZIONE ATTUALE

Quale frutto di una lunga e fertile cooperazione tra cultura, arte, artigianato, abilità manifatturiera, territorio e memorie storiche, il “Made in Italy” è un marchio d’origine ovverosia un’indicazione, apposta sul prodotto e/o sulla confezione, che attribuisce l’origine del bene al nostro Paese, al fine di consentire al consumatore di effettuare una distinzione tra merci nazionali e merci importate.

Può essere applicato quando il prodotto risulta realizzato:

1.      Interamente nel nostro Paese;

2.      In Parte nel nostro Paese ed in Parte in Paesi diversi.

Mentre nel primo caso non sussistano dubbi sull’applicabilità del marchio de quo, nel secondo caso si deve ricorrere al criterio dell’origine doganale non preferenziale.

Questo principio, già contenuto nell’intervento del Ministero delle Finanze del 1995 e conforme agli impegni assunti dall’Italia in sede di O.M.C. (Organizzazione Mondiale Del Commercio), è stato riaffermato dall’art. 4 comma 49 della L. 24/12/2003 n° 350 (Finanziaria 2004).

In sostanza, applicando le regole previste dal Codice Doganale Comunitario Aggiornato (Regolamento CE 23/04/2008 n° 450 – art. 36 – sull’origine doganale non preferenziale delle merci) un prodotto può essere considerato di origine italiana (in senso doganale) e contenere, quindi, l’indicazione “Made in Italyquando nel nostro Paese è avvenuta l’ultima trasformazione o lavorazione sostanziale.

Assume, pertanto, rilevanza la figura del fabbricante del prodotto finito.

Alla luce delle norme sopra richiamate, se anche tutte le parti del prodotto, dopo essere state materialmente fabbricate all’estero, vengono successivamente assemblate in Italia è, comunque, consentito l’uso del “Made in Italy” così come risulta legittima la sua apposizione sui prodotti assemblati all’estero con parti provenienti dall’Italia a condizione, tuttavia, che i semilavorati spediti all’estero non subiscano trasformazioni tali da fargli acquisire l‘origine non preferenziale di quel Paese.

La norma non offre, però, né esempi né indicazioni di quelle che possono essere considerate “lavorazioni sufficienti” ai fini dell’indicazione del “Made in Italy“.

Sul punto si devono seguire le indicazioni di cui agli Allegati 10, 11 e 15 (prodotti in appendice alla presente relazione) del Regolamento di Attuazione del Codice Doganale Comunitario (Regolamento CEE 02/07/1993 n° 2454).

Va sottolineato, tuttavia, che la determinazione delle regole d’origine è soggetta non soltanto all’applicazione delle norme contenute nel Codice Doganale Comunitario Aggiornato e negli Allegati al suo Regolamento di Attuazione, ma anche al rispetto dei c.d. “Accordi in Materia di Origine” (che costituendo diritto speciale, ove difformi, prevarranno sui primi) in forza dei quali l’individuazione delle regole per determinare, di volta in volta, la possibilità di apporre l’indicazione in esame è soggetta alla preventiva verifica di eventuali Accordi Bilaterali o Multilaterali in materia di origine conclusi dall’Unione Europea con Paesi Terzi o blocchi di Paesi Terzi.

Qualora, infine, residuassero dei dubbi sull’origine da attribuire al proprio prodotto alla singola azienda non resta che ricorrere allo strumento denominato I.V.O. (Informazione Vincolante in Materia di Origine).

In sostanza l’azienda deve presentare all’Agenzia delle Dogane e dei Monopoli un’istanza che descriva, con precisione, il tipo di merce o prodotto su cui intende apporre il “Made in Italy“, l’origine delle materie che lo costituiscono, il luogo dove è avvenuta la lavorazione e, più in generale, tutte le indicazioni necessarie per determinare l’origine del prodotto stesso.

Dovrà quindi attendere il responso dell’Agenzia suindicata.

Ottenere un I.V.O. è importante per tutte quelle aziende di trasformazione che utilizzano come materia prima prodotti provenienti da diverse parti del mondo e che poi esportano i loro prodotti finiti.

 

3 – LEGGE 24 DICEMRE 2003 N° 350 (FINANZIARIA 2004)

Contiene norme finalizzate a:

§  A – Identificare il Paese di Origine di un Prodotto;

§  B – Potenziare la lotta alla Contraffazione.

In merito al punto A si rimanda a quanto riportato nel paragrafo 2. poiché la Legge ha recepito la normativa in esso illustrata.

Il secondo periodo dell’art. 4, comma 49, infatti, espressamente afferma che <<…costituisce falsa indicazione la stampigliatura “made in Italy” su prodotti e merci non originari dall’Italia ai sensi della normativa europea sull’origine>> ribadendo, pertanto, come l’indicazione del marchio d’origine non sia possibile ove l’attività di trasformazione non si sia svolta in Italia o, se ivi svolta, sia stata del tutto marginale o irrilevante.

E’ interessante notare come, stando al dato letterale della norma, sembrerebbe che il Legislatore si sia disinteressato, riferendosi esclusivamente al “Made in Italy“, dei casi in cui un prodotto rechi illegittimamente il marchio “Made in Japan“, “Made in France” ecc…, pertanto tali etichettature poste su prodotti e/o merci realizzati in Paesi diversi dall’Italia ed ivi importati sembrerebbero sfuggire al divieto.

In merito al punto B l’art. 4, comma 49, afferma che

<<L’importazione e l’esportazione a fini di commercializzazione ovvero la commercializzazione o la commissione di atti diretti in modo non equivoco alla commercializzazione di prodotti recanti false o fallaci indicazioni di provenienza o di origine costituisce reato ed è punita ai sensi dell’articolo 517 del codice penale…>>

a norma del quale

<<chiunque pone in vendita o mette altrimenti in circolazione opere dell’ingegno o prodotti industriali, con nomi, marchi o segni distintivi nazionali o esteri [2563-2574 c.c.], atti a indurre in inganno il compratore sull’origine, provenienza o qualità dell’opera o del prodotto, è punito, se il fatto non è preveduto come reato da altra disposizione di legge, con la reclusione fino a due anni e con la multa fino a ventimila euro>>.

La fattispecie risulta commessa sin dalla presentazione dei prodotti o delle merci in dogana per l’immissione in consumo o in libera pratica e sino alla vendita al dettaglio.

E’ importante sottolineare come la falsa indicazione sull’origine o sulla provenienza di prodotti o merci possa essere sanata sul piano amministrativo attraverso l’esatta indicazione dell’origine o l’asportazione della stampigliatura “Made in Italy” a condizione che i beni non siano già stati immessi in libera pratica.

Precisiamo, tuttavia, che nonostante il possibile dissequestro dei prodotti, a seguito della rimozione delle false o fallaci indicazioni d’origine o di provenienza, resta ferma la prosecuzione dei procedimenti penali avviati.

 

4 – DECRETO LEGGE 14 MARZO 2005 N° 35 (DECRETO COMPETITIVITA’) CONVERTITO IN LEGGE 14 MAGGIO 2005 N° 80

Il presente provvedimento ha introdotto, indubbiamente, un ulteriore strumento di tutela del marchio d’origine Made in Italy.

Ciò, non soltanto, perché ha provveduto ad inasprire (ex art. 1, comma 10) la multa prevista dall’art. 517 c.p., elevandola fino a ventimila euro rispetto ai due milioni di lire precedentemente previsti, ma, soprattutto, perché (ex art. 1, comma 9) ha inserito nell’art. 4, comma 49, della Legge 24 dicembre 2003, n° 350, dopo le parole <<fallaci indicazioni di provenienza>> le seguenti: <<o di origine>>.

Oggi, pertanto, non sembrerebbe possibile commercializzare nell’Unione Europea (e, quindi, anche in Italia) merci prodotte all’estero con la sola dicitura relativa al nominativo e all’indirizzo italiano dell’azienda che ne ha curato la produzione e l’importazione poiché risulterebbe obbligatorio specificare anche il paese d’origine degli stessi.

Sul punto si veda la Sentenza del TAR del Friuli Venezia Giulia, del 08/02/2006, n. 157 (Sentenza Dolce & Gabbana), che ha riconosciuto la legittimità del fermo amministrativo disposto dall’Agenzia delle Dogane (oggi Agenzia delle Dogane e dei Monopoli) su t-shirt provenienti dalla Turchia sulle quali erano state apposte targhette con la dicitura “Dolce & Gabbana S.p.a. Legnano, Milano – ITALY”.

Il nuovo comma 49 dell’art. 4, infatti, stabilisce come, anche qualora sia indicata l’origine e la provenienza estera dei prodotti, costituisca fallace indicazione, perseguibile ai sensi dell’art. 517 c.p., l’uso di segni, figure o quant’altro possa indurre il consumatore a ritenere che il prodotto o la merce sia di origine italiana incluso l’uso fallace o furviante di marchi aziendali ai sensi della disciplina sulle pratiche commerciali ingannevoli.

Anche in questo caso la condotta incriminata:

1.      risulta commessa sin dalla presentazione dei prodotti o delle merci in dogana per l’immissione in consumo o in libera pratica e sino alla vendita al dettaglio;

2.      può essere sanata mediante l’asportazione, a spese del contravventore, dei segni, delle figure o di quant’altro possa indurre a ritenere che si tratti di un prodotto di origine italiana ovviamente sempre che i beni non siano già stati immessi in libera pratica;

3.      non incide sulla prosecuzione dei procedimenti penali avviati.

Ora, poiché relativamente ai prodotti industriali (non agroalimentari) per “provenienza ed origine” della merce non deve intendersi la provenienza della stessa da un certo luogo di fabbricazione, totale o parziale, bensì la sua provenienza da un determinato imprenditore che si assume la responsabilità giuridica, economica e tecnica della produzione e si rende garante della qualità del prodotto nei confronti degli acquirenti e dato che il D.P.R. 26/02/1968 n° 656 (con cui è stato recepito in Italia l’Accordo di Madrid del 14 aprile 1981 in forza del quale il venditore che apponga il suo marchio su un prodotto importato debba riportare anche <<l’indicazione precisa ed i caratteri evidenti del Paese o del luogo di fabbricazione o di produzione, o un’altra indicazione sufficiente ad evitare ogni errore sull’origine effettiva, sotto pena del sequestro del prodotto>>) limita l’applicazione del fermo amministrativo alle sole merci per le quali vi sia il fondato sospetto che rechino, all’atto della loro introduzione nel territorio della Repubblica, una falsa o fallace indicazione di provenienza, permangono incertezze di fronte alla sussistenza, o meno, dell’obbligo di indicare il paese di origine dei beni.

In merito assume un ruolo fondamentale l’interpretazione giurisprudenziale in attesa di un intervento legislativo che restituisca razionalità alla materia.

La Suprema Corte di Cassazione (Cass. Sez. III°, 24 maggio 2012, n° 19650) ha affermato che attualmente costituiscono infrazioni penalmente irrilevanti (integranti solo un illecito amministrativo) le condotte di “indicazioni fallaci” da cui possono derivare situazioni di incertezza indotte dalla carenza di <<indicazioni precise ed evidenti sull’origine o provenienza estera o comunque sufficienti ad evitare qualsiasi fraintendimento del consumatore sull’effettiva origine del prodotto>>.

Costituiscono delitto, invece, le sole ipotesi di uso del marchio e della denominazione di provenienza o di origine con “false indicazioni” idonee da indurre il consumatore a ritenere che il prodotto sia di origine italiana.

Ciò perché mentre “fallace” e ciò che può illudere e/o ingannare, “falso” è ciò che risulta contrario al vero per contraffazione o alterazione dolosa.

In sostanza risulta configurabile una fattispecie di reato solo quando oltre al proprio marchio o all’indicazione della località in cui l’azienda ha sede, l’imprenditore apponga anche una dicitura con cui attesti espressamente che il prodotto è stato fabbricato in Italia o comunque in un Paese diverso da quello di effettiva fabbricazione.

5 – DECRETO LEGGE 25 SETTEMBRE 2009 N° 135 CONVERTITO IN LEGGE 20 NOVEMBRE 2009 N° 166

Anche questo provvedimento costituisce un ulteriore passo in avanti verso una più incisiva tutela del Made in Italy.

Per effetto della sua entrata in vigore, infatti, è stata aumentata fino a due anni la pena della reclusione prevista dall’art. 517 c.p. (in luogo del massimo edittale di un anno precedentemente previsto), è stato inserito il comma 49 bis nell’art. 4 della L. 350/2003 ed, infine, è stata introdotta la disciplina del marchio collettivo “100% Made in Italy“.

Il comma 49 bis prevede che costituisce fallace indicazione l’uso del marchio, da parte del titolare o del licenziatario, con modalità tali da indurre il consumatore a ritenere che il prodotto o la merce sia di origine italiana ai sensi della normativa europea sull’origine, senza che gli stessi siano accompagnati da indicazioni precise ed evidenti sull’origine o provenienza estera o comunque sufficienti ad evitare qualsiasi fraintendimento del consumatore sull’effettiva origine del prodotto, ovvero senza essere accompagnati da attestazione, resa da parte del titolare o del licenziatario del marchio, circa le informazioni che, a sua cura, verranno rese in fase di commercializzazione sulla effettiva origine estera del prodotto.

Per i prodotti alimentari, per effettiva origine si intende il luogo di coltivazione o di allevamento della materia prima utilizzata nella produzione e nella preparazione dei prodotti e il luogo in cui e’ avvenuta la trasformazione sostanziale.

Il contravventore e’ punito con la sanzione amministrativa pecuniaria da euro 10.000 ad euro 250.000.

Si precisa, poi, come sia sempre disposta la confisca amministrativa del prodotto o della merce di cui al comma 49-bis, salvo che le indicazioni ivi previste siano apposte, a cura e spese del titolare o del licenziatario responsabile dell’illecito, sul prodotto o sulla confezione o sui documenti di corredo per il consumatore.

Per l’interpretazione di questo nuovo comma richiamiamo l’orientamento giurisprudenziale di cui al paragrafo 1.4 (Cass. Sez. III°, 24 maggio 2012, n° 19650).

E’ stato, infine, realizzato un sistema di certificazione in base al quale i produttori che producono interamente in Italia possono garantire il proprio prodotto con il marchio collettivo “100% Made in Italy“.

Ora, ai sensi dell’art. 16 comma I° del D.L. 25/09/2009 n° 135, si intende realizzato interamente in Italia il prodotto o la merce classificabile come Made in Italy, ai sensi della normativa vigente, e per il quale il disegno, la progettazione, la lavorazione ed il confezionamento sono stati compiuti esclusivamente sul territorio italiano.

Di diritto e di fatto, quindi, oggi vi è quello che possiamo definire Made in Italy doganale (51% e finitura italiana) ed il 100% Made in Italy (prodotto interamente realizzato in Italia).

L’Istituto per la Tutela dei Produttori Italiani (I.T.P.I.), organo certificatore del prodotto interamente realizzato in Italia costituito a Fermo, ha elaborato il Sistema di Certificazione “IT01 – 100% Qualità Originale Italiana”, istituendo il marchio collettivo “100% Made in Italy Certificate“.

Ciò al fine di superare i dubbi a cui la normativa lascia ancora spazio.

L’iter di certificazione si avvia con la sottoscrizione volontaria da parte dell’azienda interessata del Regolamento del Sistema IT01 e della richiesta di Certificazione.

I prodotti che il produttore intende commercializzare usando i marchi ed i segni distintivi “Made in Italy Certificate” devono avere i seguenti requisiti:

§  fabbricati interamente in Italia;

§  realizzati con semilavorati Italiani;

§  costruiti con materiali naturali di qualità e di prima scelta;

§  realizzati con disegni e progettazione esclusivi dell’azienda;

§  costruiti adottando le lavorazioni artigianali tradizionali tipiche italiane;

Inoltre, devono essere:

§  realizzati in osservanza dei criteri di sicurezza;

§  realizzati in osservanza delle norme sull’igiene.

§  L’Istituto accorda, accertata la loro sussistenza, la certificazione (che ha validità annuale) e decorso un mese dalla sua concessione un funzionario dell’Istituto procederà al completamento dell’istruttoria con l’acquisizione della documentazione necessaria e la compilazione delle schede del Disciplinare.

Entro la fine del mese successivo, poi, il funzionario confermerà all’azienda l’ottenimento della certificazione e l’azienda sarà quindi iscritta nel Registro Nazionale Produttori Italiani.

L’istituto ha provveduto, inoltre, ad istituire un sistema di tracciabilità per i prodotti certificati “100% Made in Italy”.

L’azienda certificata dovrà utilizzare i segni distintivi rilasciati dall’Istituto, dotati di marchio olografico anti-contraffazione e di numerazione progressiva, applicandoli o allegandoli al prodotto.

Il marchio collettivo potrà essere utilizzato sull’imballo, inserito su carta intestata, esposto in fiera e divulgato attraverso i mezzi pubblicitari e i siti internet.

Possiamo affermare che l’Istituto, in netto contrasto con i limiti oggettivamente posti dalla Comunità Europea ed il “suo” made in Italy “doganale”, consente ai singoli consumatori ed ai negozianti di accertare la vera origine del prodotto italiano.

Infine, ai sensi dell’art. 16 comma 4 (D.L. 135/2009) è previsto che chiunque faccia uso di un’indicazione di vendita, che presenti il prodotto come interamente realizzato in Italia, quale «100% made in Italy», «100% Italia», «tutto italiano», in qualunque lingua espressa, o di altra che sia analogamente idonea ad ingenerare nel consumatore la convinzione della realizzazione interamente in Italia del prodotto, ovvero di segni o di figure che inducano la medesima fallace convinzione, e’ punito, ferme restando le diverse sanzioni applicabili sulla base della normativa vigente, con le pene previste dall’art. 517 c.p. aumentate di un terzo.

6 – LEGGE 08 APRILE 2010 N° 55

Nota come Legge Reguzzoni-Versace-Calearo ha istituito un sistema di etichettatura obbligatoria, dei prodotti finiti ed intermedi destinati alla vendita, idoneo non soltanto ad evidenziare il luogo di origine di ciascuna fase di lavorazione, ma anche ad assicurare la tracciabilità dei prodotti.

Il sistema riguarda soltanto il settore tessile, della pelletteria e calzaturiero.

Ai fini della presente Legge (art. 1 comma 4) l’indicazione del marchio d’origine “Made in Italy” può essere apposta esclusivamente su prodotti finiti le cui fasi di lavorazione abbiano avuto luogo prevalentemente nel territorio nazionale e in particolare se almeno due delle fasi di lavorazione previste per ciascun settore siano state eseguite nel territorio medesimo e per le rimanenti fasi sia verificabile la tracciabilità.

Le fasi di lavorazione sono specificatamente indicate (art. 1, commi 5-6-7) per ciascun settore e precisamente:

§  Tessile: premesso che ai fini della presente Legge per <<prodotto tessile>> si intende ogni tessuto o filato (naturale, sintetico o artificiale) che costituisca parte del prodotto (finito o intermedio) destinato all’abbigliamento, all’utilizzazione quale accessorio d’abbigliamento, all’impiego quale materiale di prodotti destinati all’arredamento o come prodotto calzaturiero, le fasi di lavorazione sono: la filatura, la tessitura, la nobilitazione e la confezione compiute nel territorio italiano anche utilizzando fibre naturali, artificiali o sintetiche di importazione;

§  Pelletteria: la concia, il taglio, la preparazione, l’assemblaggio e la rifinizione compiuti nel territorio italiano anche utilizzando pellame grezzo di importazione;

§  Calzaturiero: la concia, la lavorazione della tomaia, l’assemblaggio e la rifinizione compiuti nel territorio italiano anche utilizzando pellame grezzo di importazione;

Precisiamo che ai sensi della recente Legge 14/01/2013 n° 8 (in Gazz. Uff., 30 gennaio 2013, n. 25) i termini «cuoio», «pelle» e «pelliccia» (nonché quelli da essi derivanti o loro sinonimi) sono riservati esclusivamente ai prodotti ottenuti dalla lavorazione di spoglie di animali sottoposte a trattamenti di concia o impregnate in modo tale da conservare inalterata la struttura naturale delle fibre, nonché agli articoli con esse fabbricati.

Per quanto attiene i beni prodotti in cuoio e pelle eventuali strati ricoprenti di altro materiale devono avere spessore uguale o inferiore a 0,15 millimetri.

Il comma 3 dell’art. 1 L. 55/2010 stabilisce, poi, che nell’etichetta dei prodotti finiti e intermedi l’impresa produttrice deve garantire il rispetto delle convenzioni siglate in seno all’Organizzazione internazionale del lavoro lungo tutta la catena di fornitura nonché fornire in modo chiaro e sintetico informazioni:

§  sulla conformità dei processi di lavorazione alle norme vigenti in materia di lavoro;

§  sulla certificazione di igiene e di sicurezza dei prodotti;

§  sull’esclusione dell’impiego di minori nella produzione;

§  sul rispetto della normativa europea e degli accordi internazionali in materia ambientale.

Ciascun prodotto, infine, che non abbia i requisiti per l’apposizione del marchio Made in Italy deve indicare comunque lo Stato di provenienza, nel rispetto della normativa comunitaria.

Forte è il regime sanzionatorio introdotto dalla legge de quo.

Salvo che il fatto costituisca reato, chiunque violi le disposizioni di cui all’art. 1, commi 3 e 4, e’ punito con la sanzione amministrativa pecuniaria da 10.000 a 50.000 euro.

Nei casi di maggiore gravita’ la sanzione e’ aumentata fino a due terzi mentre nei casi di minore gravita’ e’ diminuita fino a due terzi.

Si applicano il sequestro e la confisca delle merci.

In caso di reiterazione delle violazioni, invece, si applica la pena della reclusione da uno a tre anni e qualora le stesse siano commesse attraverso attività organizzate è prevista la pena della reclusione da tre a sette anni.

Anche l’impresa che violi le predette disposizioni è soggetta a sanzione amministrativa pecuniaria, da un minimo di 30.000 ad un massimo 70.000 euro, aumentata, nei casi di maggiore gravita’, fino a due terzi o diminuita fino a due terzi nei casi di minore gravita’.

Infine nell’ipotesi di reiterazione della violazione e’ disposta la sospensione dell’attività per un periodo da un mese a un anno.

La Legge in esame è in vigore nel nostro Paese dal 01 ottobre 2010, ma, tuttavia, ancora oggi risulta inapplicabile stante lo stop imposto dalla Comunità Europea (in particolare Ungheria e Francia), che non ha approvato i decreti attuativi italiani.

L’Unione Europea ha sollevato forti perplessità sull’attuazione della Legge per ragioni tanto formali quanto sostanziali.

In relazione ai primi ha evidenziato come la sua applicazione determinerebbe un conflitto tra norme nazionali e norme comunitarie.

Inoltre ha fatto notare come gli Stati Membri debbano comunicare alla Commissione le bozze di regolamentazione tecnica prima della loro adozione e ad uno stadio in cui siano ancora possibili modifiche sostanziali.

Ciò non risulta avvenuto poiché la Legge è stata approvata il 17 marzo 2010 e notificata il successivo 07 maggio quando, cioè, non poteva essere più considerata come bozza.

Sul piano sostanziale, poi, la Commissione UE ha affermato che nessun Paese Membro può assumere autonomamente modalità tecniche di determinazione dell’origine divergenti rispetto a quelle Europee in uso poiché ciò significherebbe ostacolare la libera circolazione dei prodotti.

In merito basta un solo esempio per evidenziare tale divergenza: una borsa in pelle assemblata e rifinita in Cina con concia e taglio del pellame realizzato in Italia potrebbe essere importata in Italia con il marchio Made in Italy mentre risulterebbe “Made in Cina” per tutti gli altri Paesi Membri.

Anche l’uso del termine “prevalente” resta un concetto piuttosto generico poiché significa che un prodotto Made in Italy non deve essere esclusivamente realizzato in Italia e le due fasi di lavorazione che devono essere compiute nel nostro Paese non necessariamente integrerebbero quelle “lavorazioni sostanziali” che secondo il Codice Doganale Comunitario Aggiornato definirebbero un prodotto come italiano, con la conseguenza che la normativa comunitaria tutelerebbe, dunque, di più il Made in Italy della stessa L. 55/2010.

Infine, si è precisato, come sebbene non esista un regolamento che preveda un sistema di etichettatura obbligatoria a livello UE, lo stesso, sempre qualora venisse adottato non dovrebbe limitarsi ai soli settori previsti dalla Legge Reguzzoni-Versace-Calearo.

7 – CONCLUSIONI

Possiamo quindi dire che, ad oggi, è possibile inserire la dicitura Made in Italy soltanto se il prodotto è stato interamente realizzato in Italia oppure se, ai sensi dell’art. 36 del Codice Doganale Comunitario Aggiornato, il bene ha subito in Italia l’ultima trasformazione sostanziale secondo le indicazioni di cui all’allegato 10, 11 e 15 del Regolamento di Attuazione del Codice Doganale Comunitario.

Pertanto, se un’impresa può indicare l’origine italiana ai fini doganali ha altresì la facoltà di apporre il marchio d’origine Made in Italy.

L’inadeguatezza delle misure indicate potrà essere superata soltanto laddove la Comunità Europea imporrà, definitivamente, l’obbligo di apporre l’indicazione dell’origine geografica della merce sui prodotti destinati al Mercato Unico.

L’attuale indiscriminata importazione di prodotti di cui non si conosce, di fatto, l’effettiva provenienza trova, tuttavia, ancora oggi la ferma adesione delle società multinazionali, che delocalizzando completamente i propri processi produttivi nei paesi in via di sviluppo sono fortemente interessate a non palesare l’origine geografica dei beni poiché prodotti a costi altamente competitivi e successivamente rivenduti, con elevati margini di profitto, nei mercati sviluppati.

Un segnale incoraggiante, volto a rafforzare la protezione dei consumatori ed a creare condizioni di parità per le imprese, è ravvisabile nelle due proposte normative presentate, nel corso della conferenza stampa, che si è tenuta mercoledì 13 febbraio 2013 a Bruxelles, dal Vice Presidente della Commissione Europea Antonio Tajani.

Le nuove misure, la cui entrata in vigore è prevista per il 2015, dovranno ora essere discusse dal Parlamento e dal Consiglio Europeo.

La prima, in materia di “Made in“, introduce l’obbligo di indicare il paese d’origine anche per i prodotti fabbricati in Europa e non solo per quelli provenienti da Paesi Terzi.

I produttori, in sostanza, potranno scegliere se apporre l’etichettatura nazionale, ad esempio Made in Italy, “Made in Germany”, “Made in France” ecc…, o più genericamente quella europea “Made in Europe” a condizione che il prodotto sia fabbricato prevalentemente in Europa.

Qualora lo stesso, invece, risultasse realizzato in diversi paesi dovrà essere indicato, come origine, il luogo dove sia avvenuto “il principale processo di fabbricazione del prodotto” e la sua “sostanziale trasformazione“.

L’indicazione d’origine obbligatoria, comprensiva del nome e dell’indirizzo del fabbricante, permetterà, quindi, una piena tracciabilità dei prodotti poiché potrà essere individuato il luogo di effettiva produzione degli stessi.

In questo modo sarà, altresì, garantita una maggiore sicurezza delle merci in quanto, ove le stesse risultassero pericolose, la possibilità di risalire all’Autorità di Sorveglianza del Mercato del Paese dove sono state prodotte consentirà una più rapida individuazione delle misure necessarie per bloccarne la circolazione.

La seconda proposta attiene, invece, all’introduzione di un sistema di vigilanza del mercato caratterizzato da regole più semplici, grazie all’introduzione di un testo unico che disciplini la materia, da procedure semplificate per la notifica dei prodotti pericolosi e da una maggiore sinergia tra il sistema di allarme rapido esistente (RAPEX) e quello di informazione per la vigilanza del mercato (ICSMS).

Alessandro Terreni